Quanta miseria, quanto sangue,
quanti morti, quanti desaparecidos. Che cosa succede
nella regione triqui? Che cosa
succede nelle comunità? La carovana per Copala
si è fermata; erano giovani
amici, erano fratelli. Alle parole si è risposto
con le pallottole, ma le
parole non si possono fermare.
Manolo Pipas, trovatore
galiziano, cittadino del mondo.
Il 26 aprile dell’anno in
corso, una ventina di attivisti ed osservatori internazionali
partirono alla volta di San
Juan Copala, un villaggio di settecento abitanti
appartenenti al gruppo etnico
triqui che si trova nella Sierra Mixteca, a circa
250 chilometri da Oaxaca.
Arrivati a Huajuapan de León, dove pernottarono,
diffusero un bollettino di
denuncia. Il gruppo paramilitare UBISORT (Unidad
de Bienestar Social de la
Región Triqui), organizzato e finanziato dal
governo di Oaxaca, manteneva
San Juan Copala in stato d’assedio controllando
l’entrata e uscita dei
residenti.
La situazione era gravissima.
Le scuole erano chiuse e pochi giorni prima, il 17 aprile, il
contadino José Celestino
Hernández Cruz era stato abbattuto da una raffica di
mitra AK47, mentre si recava
in municipio. Era l’ultimo di una lunga
successione di omicidi, circa
600 in trent’anni, tutti impuniti, tra i quali
spiccano quelli di Teresa
Bautista e Felícitas Martínez, due giovanissime
giornaliste della radio
locale, La voz que rompe el silencio (7 aprile
2008) Adesso i paramilitari
avevano tagliato anche acqua e luce.
Perché tanto accanimento? San
Juan Copala non è un posto qualsiasi. Da decenni è un focolaio
di conflitti in una regione
caratterizzata da strutture di potere
particolarmente dispotiche e
da vigorosi movimenti di protesta. Al contrario di
quanto scrivono alcuni
giornali, non si tratta di conflitti etnici, bensì di
conflitti politici che
rivelano assurdità di un sistema di governo.
La storia risale per lo meno
agli anni settanta del secolo scorso quando, di fronte ad un
rinnovato ciclo repressivo,
nacque il Movimiento de Unificación y Lucha
Triqui, MULT, che aveva
l’obiettivo di lottare contro i cacicchi e
promuovere l’autonomia del
popolo triqui. In breve, il movimento crebbe tanto
da rappresentare una minaccia
per il Partido Revolucionario Institucional,
PRI, al potere dai tempi della
rivoluzione. Molti fondatori del MULT furono
uccisi, altri scapparono a
Città del Messico, altri ancora negli Stati Uniti e
alla fine il PRI riuscì a
controllarlo. Nel 1994, sorse l’UBISORT, vero e
proprio braccio armato del
PRI, che aveva il compito di disciplinare la regione
triqui a tutti i costi, se
necessario anche a ferro e fuoco.
All’inizio degli anni 2000,
l’obiettivo pareva raggiunto. Il PRI aveva perso le elezioni
presidenziali a vantaggio del
Partido Acción Nacional, PAN (tuttora al
potere), ma conservava un
controllo ferreo sullo stato di Oaxaca a base di
flussi alterni di repressione,
corruzione e (modesti) sostegni economici. Era
un equilibrio precario e i
problemi esplosero di nuovo nel 2004 con l’arrivo
del nuovo governatore, Ulises
Ruíz Ortiz, personaggio particolarmente nefasto
che incarnava il vecchio
sistema di corruttele e il nuovo autoritarismo
tecnocratico.
Nella regione triqui, si aprì
un nuovo ciclo di lotte e tanto il MULT come la UBISORT
subirono delle scissioni.
Nacque il MULTI, dove la “I” sta a significare
“Indipendente”, per
sottolineare la separazione dal PRI e dai suoi metodi. Nel
2006, il MULTI aderì
all’Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca,
APPO, il grande movimento
sociale che per un breve momento riuscì a minare le
basi del potere politico a
Oaxaca. Il primo gennaio 2007, sull’esempio dei
neozapatisti del Chiapas, gli
abitanti di San Juan Copala, sostenuti dal MULTI
e persino da alcuni dissidenti
dell’UBISORT fondarono un “municipio autonomo”
rompendo con lo stato e il
sistema dei partiti politici.
Il sogno era sempre lo stesso:
lottare per l’autonomia e creare condizioni di vita degne per
il popolo triqui, il che era
ovviamente impossibile con Ulises Ruiz al governo.
Verso la fine del 2009, la
situazione si era ulteriormente inasprita tra
l’indifferenza della
magistratura e del governo federale. Il 29 novembre, i
paramilitari dell’UBISORT
avevano preso d’assalto il paese ed un bambino, Elías Fernández
de Jesús, era rimasto ucciso da una
pallottola perduta. Il 10
dicembre, dopo vari tentativi, i paramilitari
erano riusciti a cacciare le
autorità autonome dal palazzo municipale, pero
queste lo avevano
riconquistato il 10 marzo.
La spirale della violenza
sembrava inarrestabile ed è in questo contesto che sorse
l’iniziativa
della carovana di pace. Si
trattava di portare aiuti, rompere il silenzio e
mostrare che gli abitanti di
San Juan Copala non erano soli. Tra gli
organizzatori spiccava il
gruppo VOCAL, Voces Oaxaqueñas Construyendo
Autonomía y Libertad, la Ong
CACTUS, Centro
de Apoyo Comunitario
Trabajando Unidos e
la Red de Radios y
comunicadores Indígenas del Sureste Mexicano, una
associazione di radio libere.
Il giorno 27 aprile, la
carovana lasciò Hujuapan de León di buon mattino. Nel frattempo,
erano sopraggiunti alcuni
militanti della APPO ed una delegazione della Sezione
22 del Sindacato dei maestri
che speravano di ottenere la riapertura delle
scuole. Vi erano anche due
giornalisti della
rivista Contralinea, Érika
Ramírez e David Cilia, che volevano fare un reportage
sulle due colleghe assassinate
nel 2008 e far conoscere la realtà di questo
villaggio, sconosciuto alla
maggioranza dei messicani.
L’ambiente era teso. La sera
prima, Rufino Juárez, capo indiscusso dell’UBISORT e portaborse
di Evencio Martínez, il
ministro degli interni del governo di Oaxaca, aveva
dichiarato senza mezzi termini
che non avrebbe permesso l’entrata della
carovana in territorio triqui.
Mantenne la promessa. Verso le ore 14.30, a
circa un kilometro e mezzo da
San Juan Copala, nei pressi della località La
Sabana, la strada era
sbarrata. Quando apparve la prima vettura i paramilitari
cominciarono a fare fuoco ad
altezza d’uomo segando la vita di Bety Cariño,
presidentessa di Cactus, e del
giovane finlandese Yyry Jaakkola della Ong, Uusi
Tuuli Ry (Nove Vento). La
sparatoria durò dieci interminabili minuti. Seguirono
momenti di panico ed una
sbandata. Gli altri passeggeri riuscirono a mettersi
in salvo, chi da un lato, chi
dall’altro della strada. Alcuni vennero fatti
prigionieri, altri si celarono
tra i cespugli, altri ancora riuscirono a
scappare e a dare l’allarme.
Vi era almeno una ferita grave, Mónica Citlali
Santiago Ortiz che fu poi
trasportata al vicino ospedale di Santiago
Juxtlahuaca.
Gabriela Jímenez, giunse a
Oaxaca dove tenne una conferenza stampa presso la sede della
Sezione 22. Lì, di fronte
alla televisione ed ai giornalisti, rivelò che gli
assalitori, in gran parte
molto giovani, erano tutti militanti confessi
dell’UBISORT. Non solo. Si
vantavano, ingenuamente, di godere della protezione
di Ulises Ruiz, il che trova
riscontro anche nel fatto che le forze dell’ordine
si guardavano bene
dall’intervenire: “noi non entriamo. Temiamo per
l’incolumità dei nostri
uomini”, aveva dichiarato il comandante della polizia
statale di Oaxaca.
Nel frattempo aumentava il
numero dei desparecidos. Tra gli altri, mancavano
all’appello l’italiano
Davide Cassinari, il belga Martín Santana, i due
giornalisti di Contralinea e
due conosciuti militanti di VOCAL, David Venegas,
e Noé Bautista. Grazie ad un
video filmato da un cellulare, ben presto si seppe
che erano tutti vivi e che
stavano nascosti per paura di rappresaglie. Due
erano feriti. Per alcuni, il
calvario si protrasse altre sessanta ore. Sessanta
ore passate all’addiaccio
con una pallottola in corpo. Il 29, gli ultimi
dispersi riuscirono a rompere
l’accerchiamento. Venegas e Bautista raggiunsero
Oaxaca in serata, mentre Cilia
e Ramírez ricevevano le prime cure presso
l’ospedale di Juxtlahuaca,
dove erano giunti grazie ad un elicottero affittato
dal direttore di Contralinea,
Miguel Badillo, e dal padre di Cilia senza la
collaborazione del governo
federale né di quello di Oaxaca.
Alla fine, tutto sembra
rimasto uguale. Ulises Ruiz ha dichiarato che la colpa è di Gabino
Cué,
candidato dell’opposizione
(light) alle prossime elezioni. I veri colpevoli
godono della solita impunità,
le autorità federali tacciono e l’Unione Europea
si astiene dal condannare
l’accaduto. Tuttavia, a ben guardare, le cose non
filano così lisce per il
governo. Il presidente Felipe Calderón è stato
duramente contestato
nell’ambito di un foro sul cambio climatico celebrato a
Berlino il 2 maggio: “Mai
più un altro San Juan Copala”, diceva uno striscione.
Inoltre, i giornali di tutto
il mondo parlano della terribile situazione che
vivono gli indigeni triqui.
Manifestazioni di protesta si sono tenute a Parigi
ed in altre città europee. Il
sacrificio di Bety e Yyry non è quindi stato
inutile. Ma c’è altro. Un
comunicato di VOCAL annuncia la preparazione di una
nuova carovana di solidarietà.
Gli abitanti di San Juan Copala non sono più
soli.
Claudio Albertani. Città del
Messico, 3 maggio 2010.