da Ojarasca, supplemento mensile del quotidiano La Jornada novembre 2014
20/11/2014
Pubblichiamo la traduzione (curata dalla redazione di GlobalProject) di questo articolo tratto da Ojarasca (articolo originale), supplemento mensile del quotidiano messicano La Jornada di Gloria Muñoz Ramirez, Direttrice di Desinformémonos, editorialista de La Jornada ed editrice di Ojarasca (scarica Ojarasca novembre 2014).
Nel secondo mese di una delle crisi di Stato più gravi degli ultimi tempi, la complicità tra i differenti livelli di governo e del crimine organizzato è chiara. “È stato lo Stato”, è la parola d’ordine della terza giornata globale che esige che i 43 studenti della Escuela Normal Rural “Isidro Burgos” tornino a casa e le dimissioni del presidente Enrique Peña Nieto.
Centinaia di migliaia di persone sono scese nelle strade questa settimana. La richiesta di punire i colpevoli dell’omicidio di tre studenti non è ancora stata accolta e niente pare indicare che ciò avverrà. I più di 50 arrestati, tra polizia municipale, appartenenti al crimine organizzato e la coppia “del male” composta dal sindaco di Iguala, José Luis Abarca e sua moglie María de los Ángeles Pineda Villa, non attenua l’indignazione. L’operazione mediatica un giorno prima della grande manifestazione di Città del Messico non ha ridotto l’entità della mobilitazione.
Il messaggio dei compagni dei giovani uccisi e dei 43 detenuti e scomparsi tra il 26 e il 27 settembre in un attacco della polizia di Iguala è chiaro: “Denunciamo che il governo federale sta cercando di insabbiare il problema di Ayotzinapa come è stato fatto con moltissimi casi nel nostro paese. Denunciamo che il Procuratore di Giustizia, il presidente Enrique Peña Nieto e Miguel Ángel Osorio Chong, tutto il Governo, e con loro tutti i partiti politici, vogliono far credere all’opinione pubblica che i nostri compagni sono morti”, comincia il giovane Omar, del Comité Estudiantil de la Normal. “Non lasciateci soli”, gridano i genitori che, uno a uno, alzano il tono delle loro proteste.
Poche volte di fronte al Palacio Nacional si sono ascoltati messaggi tanto forti. Si succedono insulti alla figura presidenziale. “Fuori Peña Nieto”, grida la moltitudine all’unisono nella piazza più grande di questo paese.
La percezione del mondo sul Messico è cambiata, e questo lo riconosce perfino il segretario delle finanze, Luis Videgaray. “Non accettiamo gli esiti delle vostre ricerche”, dice una delle madri dopo l’annuncio dell’arresto della coppia Abarca.
“Certamente questo arresto non è sufficiente. Tutto questo è un teatro armato per dare la colpa a qualcuno, per dare la responsabilità a queste persone e niente più, quando il responsabile è lo Stato, che sta cercando di nascondere ciò che è successo realmente. Purtroppo temiamo il peggio, ma questo è un crimine di Stato, non è un crimine di questa coppia”, dice il pittore Gabriel Macotela in una delle tante mobilitazioni. Nelle sue parole si rispecchia la Nazione. Nessuno ci crede.
Ayotzinapa cambia volto
Nell’enorme sala d’aspetto nella quale si è trasformato il campo da basket di questo villaggio di campagna costruito nel 1926, si è formata una comunità che fa vedere qual è l’altra faccia della tragedia. La solidarietà mostra il suo volto con collette alimentari, coperte, materassi, decine di divise di organizzazioni sociali, appoggio economico e centinaia di visite giornaliere, soprattutto da parte di giovani studenti provenienti da tutto il paese, che offrono spalle e mani per quello che serve.
Novembre. Sull’altare dei morti nel patio non ci sono solo i volti di Daniel Solís Gallardo, Julio César Mondragón e Julio César Ramírez Nava, i tre studenti uccisi dalla polizia di Iguala il 26 settembre. “Non sono solo tre o quattro quelli che sono stati assassinati dal governo”, segnala un giovane normalista, che ha condiviso le proteste con Daniel Solis, e che invoca che questi omicidi “non rimangano impuniti”. Ci sono anche Gabriel Echeverrìa e Alexis Herrera Pino, “quelli della mattanza di Ángel Aguirre”, anche loro morti con esecuzione extragiudiziale il 12 dicembre del 2011, durante lo sgombero di una protesta nell’Autopista del Sol. La fotografia di uno di loro, lo mostra a cavallo di un piccolo asino, giocando, mentre l’altro sorride nella cornice.
Le madri e i padri sembrano esausti. Non hanno un minuto di respiro e soprattutto devono incontrare la stampa e le organizzazioni che arrivano per appoggiarli. “Non è che non voglio parlare. Sappiamo che è importante. Però non ce la faccio più. Non sono stanca, è solo che non ce la faccio a parlare di mio figlio”, dice, come scusandosi, una di loro. È che hanno ripetuto fino allo sfinimento la loro storia. Le telecamere dei media nazionali ed internazionali fanno la guardia in queste installazioni di due ettari di territorio assediato dalla Segreteria di Educazione Pubblica, i governi statali in turno, il crimine organizzato, le transnazionali minerarie e i partiti politici. Nessuno nega i litigi interni e le distinte correnti che influenzano questa scuola-convitto, però oggi la tragedia li unisce.
Omar Garcìa, uno dei volti noti degli studenti di fronte ai media, lo stesso che denunciò gli abusi dall’inizio, che chiese aiuto all’Esercito durante gli attacchi e a cui nessuno fece caso, è chiaro quando segnala che non si aspettavano questo appoggio, perché, in primo luogo “mai ci saremmo aspettati che una cosa del genere potesse capitare a noi”. La solidarietà dice, è arrivata soprattutto dai familiari e dai contadini di Tuxtla. Poi sono arrivati gruppi di universitari da molte parti del Messico, tanto che la “nostra scuola, che prima ci sembrava enorme, oggi ci sembra piccola, non abbiamo spazio per tanta gente”.
Non ci sono mai stati tanti giovani insieme nella struttura. Oggi, dice Omar, “il potere e lo Stato non riescono nemmeno ad immaginarlo, come fanno questi ragazzi di 19 o 20 anni a organizzare tanta gente? Che continuino a chiederselo.”
La solidarietà studentesca dietro le quinte è evidente. “Pensiamo ai sacrifici che stanno facendo per stare con noi. Ci domandiamo cosa hanno dovuto dire nei propri posti di lavoro, nelle loro scuole, nei loro luoghi di origine. Con che pretesto sono partiti per venire a trovarci, con che pretesto la signora ha lasciato al marito la cura della casa, o il marito è venuto qui trascurando la famiglia. Con che pretesto il contadino abbia detto, ascolta moglie, dobbiamo portare un chilo di fagioli a questi ragazzi. Tutto questo ce lo domandiamo. Con che coraggio il contadino ha detto, abbiamo poco però bisogna portare cento pesos ai ragazzi per il loro movimento”.
Appena tre giorni prima di questa intervista con Ojarasca, Omar ha parlato di fronte a 200 mila persone in una piazza piena quasi da scoppiare a Città del Messico. Lì ha fatto appello alle organizzazioni per una Carovana Nazionale di Indignazione, che permetta di articolare un “movimento nazionale e se Enrique (Peña Nieto) se ne va, che se ne vada, e preferibilmente che non torni, perché quando torna troverà un altro paese… il fatto che tutto il mondo si sia indignato per quello che è successo il 26 settembre rispecchia chiaramente che non siamo solamente noi gli indignati, come studenti di Ayotzinapa, ma è tutto un paese che ha sofferto per molti anni questi abusi. E non si tratta solo di indignazione per tanta delinquenza ed insicurezza, ma c’è indignazione anche quando vediamo il contadino senza lavoro, l’operaio senza lavoro, lo studente che dopo aver svolto il suo percorso formativo non ha uno sbocco lavorativo… Ogni indignazione della popolazione deve arrivarci fino in fondo, non solo quando si uccide o spariscono 43 studenti. Le cifre qui non importano, siamo migliaia nel paese, siamo migliaia di infelici e calpestati, quotidianamente, e questo è il problema”. http://www.globalproject.info/it/mondi/ayotzinapa-la-storia-che-non-finisce-di-gloria-munoz-ramirez/18248