[30-12-2013] Subcomandante Marcos: Rewind – Parte I, II, III


QUANDO I MORTI TACCIONO A VOCE ALTA

(Rewind 1)

(Nel quale si riflette sulle/sugli assenti, le biografie, narra il primo incontro di Durito col Gatto-Cane, e parla di altri temi che non fanno al caso, o cosa, come detterà il post scriptum impertinente)

Novembre-Dicembre 2013

A me pare che abbiamo fatto molta confusione sulla questione della Vita e della
Morte. Mi sembra che quella che chiamano la mia ombra qui sulla terra, sia la mia
autentica sostanza. Mi pare che, guardando le cose spirituali, siamo
come ostriche che osservano il sole attraverso l’acqua e pensano che
l’acqua torbida sia la più fine delle atmosfere. Mi sembra che il mio corpo
non sia altro che le azioni del mio essere migliore. Di fatto, che si prenda il mio corpo
chiunque voglia, che se lo prenda, dico: non sono io.

Herman Melville “Moby Dick”.

Da molto tempo sostengo che la maggioranza delle biografie non sono altro che una menzogna documentata, e a volte, non sempre, ben scritta. Il biografo medio ha una convinzione previa ed il margine di tolleranza è molto ridotto, se non inesistente. Con questa convinzione comincia a frugare nel puzzle di una vita che gli è estranea (per questo il suo interesse nel fare la biografia), e raccoglie i pezzi falsi che gli permettano di documentare la propria convinzione, non la vita recensita.

La cosa certa è che forse potremmo conoscere con certezza data e luogo di nascita, e, in alcuni casi, data e luogo di morte. Oltre a ciò, la maggior parte delle biografie dovrebbero rientrare nel genere dei “romanzi” o della “fantascienza”.

Che cosa resta dunque di una vita? Tanto o pco, diciamo noi.

Tanto o poco, dipende dalla memoria.

O, piuttosto, dai frammenti che quella vita ha impresso nella memoria collettiva.

Se questo non vale per biografi ed editori, poco importa alla gente comune. Normalmente quello che realmente importa non appare sui mezzi di comunicazione, né si può misurare coi sondaggi.

Ergo, di una persona assente abbiamo solo pezzi arbitrari del complesso puzzle fatto di brandelli, squarci e propensioni che si conoscono come “vita”.

Quindi, con questo inizio confuso, permettetemi di prendere qualcuno di questi pezzi frammentari per abbracciare ed abbracciarci per il passo che oggi ci manca e che ci è necessario…

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Un concerto nel silenzio messicano. Don Juan Chávez Alonso, purépecha, zapatista e messicano, fa un gesto come per allontanare un insetto fastidioso. È la sua risposta alle scuse che gli porgo per uno dei miei rozzi spropositi. Siamo in territorio Cucapá, in mezzo ad un terreno sabbioso. In quelle coordinate geografiche e quando nel calendario è indicata la Sesta 2006 nel Nordovest del Messico, nella grande tenda da campeggio che usa come alloggio, Don Juan prende la chitarra e chiede se vogliamo ascoltare un pezzo che ha composto. Qualche accordo ed inizia un concerto che, letteralmente, narra l’insurrezione zapatista del primo gennaio 1994 fino alla presenza della Comandanta Ramona nella formazione del Congresso Nazionale Indigeno.

Poi il silenzio, come fosse una nota in più.

Un silenzio nel quale tacevano a voce alta i nostri morti.

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Anche nel nordest messicano, la follia sanguinaria del Potere tinge di assurdi ancora impuni il calendario del basso. 5 giugno 2009. L’avidità e il dispotismo governativi hanno dato fuoco ad un asilo infantile. Le vittime mortali, 49 bambini e bambine, sono gli effetti collaterali quando si distruggono archivi compromettenti. All’assurdo che siano i genitori a seppellire i figli, segue quello di una giustizia debole e corrotta: i responsabili non ricevono un mandato di cattura, bensì poltrone nel gabinetto del criminale che, sotto l’azzurro di Azione Nazionale, tenterà di occultare il bagno di sangue nel quale ha sommerso il paese intero.

Dove i biografi interrompono gli appunti “perché pochi anni di vita non sono redditizi”, la storia del basso apre il suo quaderno di altri assurdi: con la sua ingiusta assenza, questi bimbi hanno partorito altri uomini e donne. Da allora, i loro genitori innalzano la domanda di giustizia più grande: che l’ingiustizia non si ripeta.

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“Il problema con la vita è che alla fine ti uccide”, avrebbe detto Durito, le cui fantastiche storie cavalleresche divertivano tanto la Chapis. Tuttavia lei avrebbe domandato, con quell’impertinente miscuglio di ingenuità e sincerità che sconcertava chi non la conosceva, “e perché un problema?”. Don Durito de La Lacandona, scarabeo di origine e di mestiere cavaliere errante, avrebbe evitato di polemizzare con lei, dato che, secondo un presunto regolamento della cavalleria errante, non si deve contraddire una signora (soprattutto se la signora in questione ha buone conoscenze “molto in alto”, aggiungeva Durito che sapeva che la Chapis era religiosa, suora, sorella, o come voi chiamate le donne che fanno della fede la loro vita e professione).

La Chapis non ci conosceva. Voglio dire, non come chi ci guarda da fuori e scrive su di noi, parla… o sparla (sapete bene quanto le mode siano passeggere). La Chapis era con noi. E lo era tempo prima che uno scarabeo impertinente si presentasse sulle montagne del sudest messicano e si dichiarasse cavaliere errante.

E forse a farla essere tra noi era che alla Chapis non sembrava inquietare tanto la faccenda della vita e della morte. Quell’atteggiamento tanto nostro, dei neozapatisti, in cui tutto si inverte e non è la morte che preoccupa ed occupa, ma la vita.

Ma la Chapis non era solo tra noi. È chiaro che fummo solo una parte del suo cammino. E se ora vi racconto qualcosa di lei non è per fornire appunti per la sua biografia, ma per dirvi quello che qua sentiamo. Perché la storia di questa credente, la sua storia con noi, è di quelle che fanno dubitare gli atei fanatici.

“La religione è l’oppio dei popoli”? Non lo so. Quello che so è che la spiegazione più brillante che ho sentito sulla distruzione e spopolamento che la globalizzazione neoliberale opera in un territorio, l’ha data non un teorico marxista-leninista-ateista-e-altri-ista, ma… un parroco cristiano, cattolico, apostolico e romano, aderente alla Sexta, e confinato dall’alto clero (“per pensare troppo”, mi disse come chiedendo scusa) in uno dei deserti geografici dell’altopiano messicano.

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Credo (forse mi sbaglio, non sarebbe la prima volta e, certamente, non sarà l’ultima) che molta gente, se non tutta, che si è avvicinata a quello che si conosce come neozapatismo, l’ha fatto cercando risposte a domande fatte nelle storie personali di ognuno, secondo il proprio calendario e geografia. E che ha indugiato solo l’indispensabile per trovare la risposta. Quando si sono accorti che la risposta era il monosillabo più problematico della storia, si sono voltati da un’altra parte ed hanno seguito quella direzione. Non importa quanto dicano e si dicano che continuano a stare qua: sono andati via. Qualcuno più velocemente di altri. E la maggioranza di loro non ci guardano, o lo fanno con la stessa distanza e sdegno intellettuale mostrati calendari prima che albeggiasse il gennaio del 1994.

Credo di averlo detto prima, in qualche altra missiva, non sono sicuro. Ma dico, o ribadisco, che quel pericoloso monosillabo è “tu“. Così, minuscolo, perché questa risposta era ed è intima per ognuno. Ed ognuno la prende con rispettivo terrore.

Perché la lotta è collettiva, ma la decisione di lottare è individuale, personale, intima, come lo è quella di continuare o tentennare.

Voglio dire che le poche persone che sono rimaste (e non mi riferisco alla geografia ma al cuore) non hanno trovato questa risposta? No. Quello che cerco di dire è che la Chapis non venne a cercare quella risposta alla sua personale domanda. Lei già conosceva la risposta ed aveva fatto di quel “tu” la sua strada e meta: il suo essere credente e conseguente.

Molte altre, molti altri come lei, ma diversi, si sono risposti in altri calendari e geografie. Atei e credenti. Uomini, donne ed otroas di tutti i calendari. Sono quelli, quelle, ésoas, che sempre, vivi o morti, si pongono di fronte al Potere non come vittime, ma per sfidarlo con la multipla bandiera della sinistra del basso. Sono le nostre compagne, compagni e compañeroas… benché nella maggioranza dei casi né loro né noi lo sappiamo… non ancora.

Perché la ribellione, amici e nemici, non è patrimonio esclusivo dei neozapatisti. È dell’umanità. E questo è qualcosa che bisogna celebrare. Da tutte le parti, tutti i giorni e a tutte le ore. Perché anche la ribellione è celebrazione.

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Non sono pochi né deboli i ponti che, da tutti gli angoli del pianeta Terra, sono stati lanciati fino a questi suoli e cieli. A volte con sguardi, a volte con parole, sempre con la nostra lotta, li abbiamo attraversati per abbracciare quell’uno altro che resiste e lotta.

Forse di questo e nient’altro si tratta “l’essere compagni”: di attraversare ponti.

Come in questo abbraccio fatto lettere per le sorelle della Chapis alle quali, come a noi, manca e, come noi, hanno bisogno di lei.

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“L’impunità, caro Matías, è qualcosa che solo la giustizia
può concedere; è la Giustizia che esercita l’ingiustizia”.

Tomás Segovia, ne “Cartas Cabales”.

Già prima ho detto che, secondo la mia umile opinione, ognuno è l’eroe o l’eroina della propria storia individuale. E che nel sedativo autocompiacimento di raccontare “questa è la mia storia personale”, si pubblicano fatti e misfatti, si inventano le fantasie più incredibili, ed il narrare aneddoti somiglia troppo al fare i conti dell’avaro che ruba il non suo.

L’ancestrale affanno di trascendere la propria morte trova nelle biografie il sostituto dell’elisir dell’eterna giovinezza. Chiaro, anche nella discendenza. Ma la biografia è, per così dire, “più perfetta”. Non si tratta di qualcuno a cui si somiglia, è “l’io” esteso nel tempo grazie alla “magia” della biografia.

Il biografo di sopra ricorre a documenti d’epoca, forse a testimonianze di familiari, amici o compagn@ della vita di cui la morte si appropria. I “documenti” hanno la stessa certezza delle previsioni meteorologiche e le testimonianze ovviano alla sottile separazione tra il “io credo che…” ed il “io so che…”. E la “veridicità” della biografia si misura per la quantità di note a piè di pagina. Per le biografie vale la stessa regola delle fatture per spesa per “immagine” del governo: quanto più sono voluminose, tanto più sono corrette.

Attualmente, con internet, twitter, facebook ed equivalenti, i miti biografici smussano le loro fallacie e, voilà, si ricostruisce la storia di una vita, o suoi frammenti, che poco o niente hanno a che vedere con la storia reale. Ma non importa, perché la biografia è pubblicata, stampata, circola, è letta, citata, recitata… come la menzogna.

Controllate nelle moderne fonti documentali delle biografie future, cioè, Wikipedia ed i blog, Facebook ed i rispettivi “profili”. Ora fate il confronto con la realtà:

Non vi fa rabbrividire pensare che, forse, in un futuro…

Carlos Salinas de Gortari sarà “il visionario che comprese che vendere la Nazione era, oltre ad un affare di famiglia (certo, intendendo come famiglia quella di sangue e quella politica), un atto di moderno patriottismo”, e non il leader di una banda di traditori (non fatevi ingannare, nell’opposizione “matura e responsabile” ce ne sono divers@ che appoggiarono la riforma dell’articolo 27 della Costituzione, lo spartiacque della claudicazione dello Stato Nazionale in Messico);

Ernesto Zedillo Ponce de León non sarà “l’uomo di Stato” che portò la Nazione da una crisi ad un’altra peggiore (oltre ad essere uno degli autori intellettuali, insieme ad Emilio Chuayffet e Mario Renán Castillo, del massacro di Acteal), ma seppe tenere “le redini del paese” con un singolare senso dell’umorismo… per finire ad essere quello che è sempre stato: l’impiegato di una multinazionale;

Vicente Fox sarà la dimostrazione che il posto di presidente di una repubblica e di una filiale di bibite è intercambiabile… e che entrambi i posti possono essere occupati da inetti;

Felipe Calderón Hinojosa sarà un “presidente coraggioso” (perché altri morissero) e non uno psicopatico che rubò l’arma (la presidenza) per i suoi giochi di guerra… e che finì ad essere quello che era sempre stato: l’impiegato di una multinazionale;

Enrique Peña Nieto sarà un presidente colto e intelligente (“è ignorante e stupido ma abile”, è il nuovo profilo che gli si costruisce nei capannelli degli analisti politici), e non un analfabeta funzionale (come dice il proverbio popolare: “ciò che natura non dà, Monex non compra”)…?

Ah, le biografie. Non poche volte sono autobiografie, benché siano i discendenti (o i complici) a promuoverle e così addobbano il loro albero genealogico.

I criminali della classe politica messicana che hanno malgovernato queste terre continueranno ad essere, per coloro che subirono i loro eccessi, criminali impuni. Non importa quante righe si paghino sui media; né quanto si spenda in azioni spettacolari per le strade, sulla stampa scritta, in radio e televisione. Dai Díaz (Porfirio e Gustavo) ai Calderón e Peña, dai Castellanos e Sabines agli Albores e Velasco, è solo il succedersi (sulle reti sociali, perché sui media di massa sono sempre “persone responsabili e mature”) della ridicola frivolezza dei “junior”.

Ma il mondo è rotondo e nel continuo sali scendi dalla politica di sopra, si può passare, in poco tempo, dalla copertina di “Hola”, a “RICERCATO: CRIMINALE PERICOLOSO”; dall’euforia del dicembre del TLC, al dopo sbornia dell’insurrezione zapatista; da “uomo dell’anno”, allo “sciopero della fame” con acqua minerale di marca “chic” (inutile mio caro, perfino per le proteste ci sono classi sociali); dagli applausi per le brutte barzellette, al parricida putativo da concretarsi; dal nepotismo e la corruzione ornate di furberie, alle indagini per legami col narcotraffico; dalle divise militari taglia extra large, all’esilio pavido e macchiato di sangue; dall’euforia del dicembre di svendita a…

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Con tutto questo e quello che segue, voglio dire che non si devono scrivere-leggere biografie? No, ma quello che fa girare la vecchia ruota della storia sono i collettivi, non gli individui… o individue. La storiografia si nutre di individualità; la storia impara dai popoli.

Voglio dire che non bisogna scrivere-studiare la storia? No, ma quello che dico è che è meglio farla nell’unico modo possibile, cioè, con altri ed organizzati.

Perché la ribellione, amici e nemici, quando è individuale è bella. Ma quando è collettiva ed organizzata è terribile e meravigliosa. La prima è materia di biografie, la seconda fa la storia.

-*-

Non con le parole abbracciamo i nostri compagni e compagne zapatisti, atei e credenti,

quelli che di notte si misero in spalla lo zaino e la storia,

quelli che afferrarono con le mani il lampo e il tuono,

quelli che indossarono gli stivali senza futuro,

quelli che si coprirono il volto e il nome,

quelli che, senza aspettarsi nulla in cambio, morirono nella lunga notte

affinché altri, tutti, tutte, in un’alba ancora da venire,

possano vedere il giorno come si deve fare,

ovvero, di fronte, in piedi e con lo sguardo e il cuore in alto.

Per loro né biografie né musei.

Per loro la nostra memoria e ribellione.

Per loro il nostro grido:

libertà! Libertà! LIBERTÀ!

Bene. Salve e che i nostri passi siano grandi come i nostri morti.

Il SupMarcos.

P.S. OVVIE ISTRUZIONI. – Ora siate così gentili da leggere, in calendario inverso, dal Rewind 1 al 3, e forse troverete il gatto-cane ed alcuni dubbi si chiariranno. E sì, siate certi che altre domande sorgeranno.

P.S. CHE SODDISFA, SOLLECITA, I MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA. – Ah! Commovente lo sforzo dei contras sui media di massa di tentare di fornire argomenti ai pochi lettori-ascoltatori-spettatori contras che gli rimangono. Ma, generosamente visto il periodo natalizio, vi mando alcuni tips affinché li usiate come materiale giornalistico:

– Se le condizioni delle comunità indigene zapatiste sono le stesse di 20 anni fa e non è progredito nulla nel loro livello di vita, perché l’EZLN – come fece nel 1994 con la stampa di massa – si “apre” con la escuelita affinché la gente del basso veda e conosca direttamente, SENZA INTERMEDIARI, quello che c’è qua?

E messo in “forma interrogativa”, perché nello stesso periodo si è ridotto, in modo esponenziale, il numero di lettori-ascoltatori-spettatori dei mezzi di comunicazione di massa? Pst, pst, potete rispondere che non avete meno lettori-ascoltatori-spettatori – questo ridurrebbe la pubblicità ed il chayote -, ma che adesso siete più “selettivi”.

– Voi chiedete “Che cosa ha fatto l’EZLN per le comunità indigene?” E noi rispondiamo con la testimonianza diretta di decine di migliaia di nostri compagni e compagne.

Ora voi, padroni e azionisti, direttori e capi, rispondete:

Che cosa avete fatto voi, in questi 20 anni, per i lavoratori dei media, uno dei settori più colpiti dal crimine patrocinato e incoraggiato dal regime che tanto adorate? Che cosa avete fatto per i giornalisti, le giornaliste minacciate, rapite ed assassinate? E per le loro famiglie? Che cosa avete fatto per migliorare le condizioni di vita di questi lavoratori? Gli avete aumentato lo stipendio per permettergli una vita degna e non dover vendere la loro parola o il loro silenzio sulla realtà? Avete creato le condizioni perché possano andare in pensione dopo aver lavorato degnamente per voi per anni? Gli avete dato la certezza del lavoro? Voglio dire, il lavoro di una o un reporter non dipende più dall’umore del capo redazione o dai “favori”, sessuali o di altro tipo, che si chiedono a tutti i generi?

Che cosa avete fatto affinché l’essere lavoratore dei media sia un orgoglio che non costi la perdita della libertà o della vita per essere onesti?

Potete dire che il vostro lavoro è più rispettato da governanti e governati rispetto a 20 anni fa?

Che cosa avete fatto contro la censura imposta o tollerata? Potete dire che i vostri lettori-ascoltatori-telespettatori sono meglio informati di 20 anni fa? Potete dire che avete più credibilità di 20 anni fa? Potete dire che sopravvivete grazie ai vostri lettori-ascoltatori-spettatori e non grazie alla pubblicità, in maggior parte governativa?

Forza, rispondete ai vostri lavoratori e lettori-ascoltatori-spettatori, così come noi rispondiamo ai nostri compagni e compagne.

Oh, andiamo, non siate tristi. Non siamo gli unici sfuggiti al vostro ruolo di giudice e boia, a supplicare la vostra assoluzione e ricevere sempre la vostra condanna. C’è anche, per esempio, la realtà.

Bene di nove, o, meglio, di sessanta nove.

Il Sup che dice a se stesso che è meglio il pollice verso che il dito medio alzato.

È territorio zapatista, è Chiapas, è Messico, è America Latina, è la Terra. Ed è dicembre 2013, fa freddo come 20 anni fa e, come allora, oggi ci ripara una bandiera: quella della ribellione.

REWIND 2:

DELLA MORTE E DI ALTRI ALIBI

Dicembre 2013

“Uno sa di essere morto quando le
cose che lo circondano hanno smesso di
morire.”
Elías Contreras
Professione: Commissione di Investigazione dell’EZLN
Stato Civile: Defunto.
Età: 521 anni e più.

È l’alba, e se me lo domandassero, ma non l’hanno fatto, direi che il problema con i morti sono i vivi.

Perché poi generalmente si scatena la disputa assurda, oziosa e indignante sulla loro assenza.

Quel “io li ho conosciuti-visti-mi hanno detto” è soltanto l’alibi per nascondere il “io sono l’amministratore di quella vita perché amministro la sua morte”.

Qualcosa come il “copyright” della morte, convertita dunque in mercanzia che si possiede, si scambia, circola e viene consumata. Per questo esistono perfino istituzioni: libri storiografici, biografie, musei, effemeridi, tesi, giornali, riviste e dibattiti.

E si cade nella trappola dell’edizione della storia stessa per limare gli errori.

Si usano allora i morti per innalzarsi un monumento su di loro.

Ma, secondo la mia modesta opinione, il problema con i morti è sopravvivergli.

O si muore con loro, un po’ o molto ogni volta.

O ci si aggiudica il titolo di loro portavoce. In fin dei conti non possono parlare, e non è la loro storia, quella loro, che si racconta, ma si giustifica la propria.

O si possono anche usare per pontificare con il noioso “io alla tua/vostra età”. Quando l’unico modo onesto di completare questo ricatto a buon mercato e per nulla originale (quasi sempre rivolto a giovani e bambini), sarebbe concludere con un “aveva commesso più errori di te/voi”.

Dietro il sequestro di questi morti, c’è il culto della storiografia, così di sopra, così incoerente, così inutile. Ovvero, la storia che vale e che conta è quella che sta in un libro, una tesi, un museo, un monumento e negli equivalenti attuali e futuri che non sono altro che un modo puerile di addomesticare la storia del basso.

Perché ci sono quelli che vivono a costo della morte di altri, e sulla loro assenza costruiscono tesi, saggi, scritti, libri, film, ballate, canzoni ed altre forme più o meno eleganti di giustificare la propria inazione… o la sterile azione.

Quel “non è morto” non può che essere solo uno slogan, se nessuno prosegue il cammino. Perché secondo il nostro modesto e non accademico punto di vista, ciò che importa è il cammino non chi lo percorre.

E, approfittando del fatto che sto riavvolgendo questo nastro di giorni, mesi, anni, decenni, domando, per esempio:

Del SubPedro, del señor Ik, della Comandanta Ramona, valgono i loro alberi genealogici? Il loro DNA? I loro certificati di nascita con nome e cognome?

O ciò che vale è il cammino che hanno percorso insieme ai senza nome e senza volto – cioè, senza lignaggio familiare e/o scudo araldico -?

Del SubPedro vale il suo vero nome, il suo volto, il suo stile, raccolti in una tesi, una biografia – cioè, in una bugia documentata secondo convenienza -?

O vale la memoria che di lui esiste nelle comunità che aveva organizzato? Sicuramente i fanatici della religione l’avrebbero accusato, giudicato e condannato per essere ateo, ed i fanatici della razza anche, ma per essere meticcio e non avere la pelle del colore della terra, con quel razzismo al contrario che si pretende “indigeno”.

Ma la decisione di lottare del SubPedro, del Comandante Hugo, della Comandanta Ramona, degli insurgentes Alvaro, Fredy, Rafael, vale perché qualcuno gli mette un nome, un calendario, una geografia? O perché quella decisione è collettiva e c’è chi prosegue?

Quando qualcuno vive e muore lottando, nella sua assenza ci dice “ricordami”, “onorami”, “biasimami”? O ci impone di “proseguire”, “non arrendersi”, “non tentennare”, “non vendersi”?

Voglio dire, io sento (e parlando con altri compas so che non è solo un mio sentimento) che il conto che devo presentare ai nostri morti è che cosa si è fatto, che cosa manca e che cosa si sta facendo per completare ciò che ha motivato questa lotta.

Probabilmente mi sbaglio, e qualcuno mi dirà che il senso di ogni lotta è perdurare nella storiografia, nella storia scritta o parlata, perché è l’esempio dei morti, la loro biografia addomesticata ciò che motiva i popoli a lottare, e non le condizioni di ingiustizia, di schiavitù (il termine reale per definire la mancanza di libertà), di autoritarismo.

Ho parlato con alcuni compagne, compagni, zapatisti dell’EZLN. Certo, non con tutt@, ma con quelli che posso ancora vedere, con i quali posso stare.

C’è stato tabacco, caffè, parole, silenzi, ricordi.

Non è stata l’ansia di durare indefinitamente, bensì il senso del dovere quello che ci ha portati qui, nel bene o nel male. Il bisogno di fare qualcosa di fronte all’ingiustizia millenaria, quell’indignazione che sentiamo come la caratteristica più contundente di “umanità”. Non vogliamo nessun posto in musei, tesi, biografie, libri.

Quindi, nell’ultimo respiro, noi zapatiste, zapatisti, ci domandiamo “mi ricorderanno?”. O ci domandiamo “se cederò di un passo sul cammino?”, “c’è chi lo proseguirà?”.

Noi, quando andiamo sulla tomba di Pedro, gli diciamo quello che abbiamo fatto affinché tutti lo ricordino, o gli raccontiamo quello che si è fatto nella lotta, quello che ancora c’è da fare (sempre manca ciò che manca), quanto siamo ancora piccoli?

Gli rendiamo buon conto se prendiamo il “Potere” e se gli innalziamo una statua?

O se possiamo dirgli “Senti Pedrín, siamo ancora qui, non ci siamo venduti, non tentenniamo, non ci arrendiamo”?

E, a proposito di discussioni…

Il fatto di darsi un altro nome ed occultare il volto, è per nasconderci dal nemico o per sfidare la sua struttura da mausoleo, la sua nomenclatura gerarchica, le sue offerte di compra-vendita truccate da poltrone burocratiche, premi, lodi e lusinghe, club grandi o piccoli di seguaci?

/ sì mio caro, i tempi cambiano, prima il maestro o la maestra – o l’equivalente di mandarino della conoscenza – si corteggiava dedicandogli libri, lusingando le sue parole, guardandol@ con rapimento. Ora si posta nei suoi scritti, si danno “like” nelle sue pagine web, ci si somma al numero di seguaci che cinguettano disordinatamente… /

Voglio dire, ci importa chi siamo? O ci importa quello che facciamo?

La valutazione che ci interessa e colpisce, è quella di fuori o quella della realtà?

La misura del nostro successo o fallimento sta in quello che appare su di noi sui media a pagamento, nelle tesi, nei commenti, nei “pollici in alto”, nei libri di storia, nei musei?

O sta in quanto raggiunto, mancato, consolidato, in sospeso?

E riavvolgendo ancora…

Della Chapis, importa che era credente e cristiana conseguente, o importa che ha vissuto e lottato, con e nel suo essere cristiana, per chi non l’ha mai conosciuta? Certamente i fanatici dell’ateismo l’avrebbero accusata, giudicata e condannata per non professare la religione degli ismo che pretende di monopolizzare la spiegazione e guida di tutte le lotte.

Una volta, dopo avere letto “Il Vangelo secondo Gesù” di José Saramago, la Chapis cercò il letterato e compagno per dirgli non solo che il suo libro non le era piaciuto, ma anche che lei avrebbe scritto la propria versione sull’argomento. Importa se riuscì ad incontrare Saramago, se gli disse questo, se scrisse la sua versione? O importa la sua decisione di farlo?

E di Tata Don Juan, vale solo per i suoi cognomi “Chávez Alonso”, il suo sangue purépecha, il cappello che lo copriva e lo mostrava, come se indossasse un passamontagna? O vale anche per le strade in diversi continenti che hanno avuto l’onore del suo passo originario?

Le bambine ed i bambini assassinati nell’Asilo ABC, ad Hermosillo, Sonora, Messico, che hanno avuto appena una brevissima biografia, valgono per il numero di righe ed i minuti a loro dedicati sui mezzi di comunicazione? O valgono per il sangue che sangue e vita ha dato loro, e che ora si impegna con degna ostinazione e vuole giustizia? Perché quei bambini e bambine valgono anche ora, benché assenti, per i padri e le madri che sono partoriti con la loro morte.

Perché la giustizia, amici e nemici, è anche impedire che si ripeta l’ingiustizia, o che cambi nome, faccia, bandiera, alibi ideologico, politico, razziale, di genere.

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Voglio dire, noi (ed altr@ come noi, molti, molte, tutt@) lottiamo per essere migliori ed accettiamo quando la realtà ci dice che non ci siamo riusciti, ma non per questo smettiamo di lottare.

Perché non è che qua non onoriamo i nostri morti. Lo facciamo. Ma lo facciamo lottando. Tutti i giorni, a tutte le ore. E così fino a che guardiamo il suolo, prima allo stesso livello, poi verso l’alto, coprendoci con il passo compagno.

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Infine, le pagine si allungano e con esse cresce anche la certezza che tutto questo non importa a nessuno, che non è trascendente, che non è quello che la-Nazione-il-momento-storico-la-congiuntura chiede, che è meglio raccontare una storia… o scrivere una biografia… o innalzare un monumento.

E delle 3 cose, sono fermamente convinto che l’unica che vale la pena è la prima.

Quindi vi racconterò, così come me l’ha riferita Durito, la storia del Gatto-Cane (attenzione: adesso sì leggete “Rewind 3”).

Bene. Salute e, dei morti, guardate soprattutto la strada che il loro passo ha percorso, che ha ancora bisogno di passi che la percorrano.

Il Sup mentre si sistema il passamontagna con macabra civetteria.

P.S. CHE PRENDE POSIZIONE IN UN DIBATTITO DI REALE ATTUALITÀ. – “I videogiochi sono la continuazione della guerra con altri mezzi”, sentenzia Durito. Ed aggiunge: “Nella lotta millenaria tra i fanatici del PS e della Xbox può esserci solo un perdente: l’utente”. Non ho osato chiedergli a che cosa si riferisse, ma suppongo che più di un@ capirà.

P.S. TROPPO LUNGO PER STARE IN UN “TWIT” (deve essere per l’ammontare della fattura). – L’autonominato “governatore” del Chiapas, Messico, ha solennemente dichiarato che la sua amministrazione “ha stretto la cinghia” con un programma di austerità. A dimostrazione della sua decisione, si è bevuto più di 10 milioni di dollari per una campagna pubblicitaria nazionale tanto massiccia e costosa quanto ridicola… e illegale. Ma siccome alcuni media hanno avuto la loro fetta di torta, “l’imberbe”, “inesperto” e “immaturo” impiegato di un affare che non è né partito, né è verde, né è ecologista, né è del Messico (beh, né lui è governatore, quindi non c’è motivo di soffermarsi sui dettagli) è ora sulle pagine della stessa stampa che lo attaccava per essere un “bamboccio”, un “uomo di Stato” che non spende per la sua promozione personale, ma per “attrarre turismo in Chiapas”. Sì mio caro, già le agenzie turistiche lanciano il pacchetto “Conosci il Güero Velasco”, “all included”, accompagnato da un “kit” con paraocchi per non vedere i gruppi paramilitari, né la miseria e il crimine che pullulano nelle principali città chiapaneche (Tuxtla Gutiérrez, San Cristóbal de las Casas, Comitán, Tapachula, Palenque), in uno stato dove si suppone che i poveri siano gli indigeni, non i meticci. Se il ladrone, Juan Sabines Guerrero, pagò milionate ai media per simulare un governo dove c’erano solo razzie, l’attuale “junior” della politica locale paga di più perché ha imparato dall’attuale titolare dell’Esecutivo Federale (credo si chiami Enrique Manlio Emilio… no? Vedete lo svantaggio di non avere un account twitter?) che si può passare da un’indagine giudiziaria alla lista di candidati alle presidenziali del 2018, con solo poche decine di milioni di dollari, un buon Photoshop e una telenovela rosa.

P.S. DI CONGIUNTURA REITERATA. – Permetta, signora, signore, signorina, bambino, bambina, altroa. Mi permetta, alla fine impertinente, di non lasciarle chiudere la porta e restare solo, sola, a ruminare la sua frustrazione e cercare responsabili, come si infuria chi ha un altare fisso e un idolo variabile. E se non metto il piede per evitare che lei chiuda la porta e resti in salvo nel suo castello di dogmi, ma, invece, metto il naso dove non devo, lo attribuisca al mio naso, già di per sé impertinente in volume e forma. Suvvia, mi permetta di interrompere il suo odio represso, secco, sterile, inutile.

Venga, si calmi, si sieda, respiri profondamente. Sia forte e si comporti con studiata sensatezza, come quelle coppie che si separano “da persone mature” benché muoiano dalla voglia di spaccare la testa alla suddetta… o suddetto (non dimenticare l’equità di genere).

Dunque, quando ottenete qualcosa è solo grazie al vostro sforzo? Però, quando mietete una sconfitta, allora si democratizzano le responsabilità… e vi autoescludete. “I fiori sono una farsa”, hanno sentenziato. “Non si accettano incappucciati”, hanno decretato (e nemmeno pensare di presentare un reclamo alla CONAPRED per discriminazione nel modo di vestire). “Soltanto noi soli trionferemo e la Nazione ci sarà eternamente grata, i nostri nomi compariranno nei libri di testo, congressi, statue, musei”, si sono entusiasmati anticipatamente.

Poi è successo quello che è successo e, come prima, ora cercano chi incolpare del fallimento di questa lotta di sopra. “È mancata l’unità”, dicono, ma pensano “è mancato che si sottomettessero alla nostra guida”.

La razzia truccata da riforma costituzionale non è cominciata con questo governo. È iniziata con Carlos Salinas de Gortari e la sua riforma dell’Articolo 27. L’esproprio agrario fu “coperto” allora dalle stesse menzogne che ora avvolgono le malchiamate riforme: ora la campagna messicana è completamente distrutta, come se un bombardamento atomico l’avesse spianata. E succede ormai col totale delle riforme. La benzina, l’energia elettrica, l’educazione, la giustizia, tutto sarà più caro, di peggiore qualità, più scarso.

Prima di questo e ancora prima delle attuali riforme, i popoli originari sono stati e sono spogliati dei loro territori, che sono anche della Nazione. L’oro liquido moderno, l’acqua e non il petrolio, è stato rubato senza che questo richiamasse l’attenzione dei grandi media. Al furto del sottosuolo, tanto chiaramente denunciato nella Cattedra Tata Juan Chávez Alonso dal Congresso Nazionale Indigeno, sono state dedicate poche righe svogliate sulla stampa a pagamento che oggi lamenta che IL POPOLO, questa entelechia così politico mediatica, non faccia niente per frenare il furto legalizzato e illegittimo chiamato “riforma energetica”. La razzia è quotidiana e in ogni luogo. Ma è solo ora che si dice che la Patria è stata tradita.

Ed ora lei, che è stato sordo, si indigna perché non l’ascoltano né la seguono.

E dice che non si fa niente perché non vede niente. Dice e si dice: “vale quello che faccio IO o quello che si fa sotto la mia tutela, nel mio calendario e nella mia geografia. Il resto non esiste perché non lo vedo”.

E come potrebbe vedere qualcosa se usa i paraocchi che il Potere le regala?

Solo adesso scopre che lo Stato non solo rinuncia ad essere un ammortizzatore nell’uragano di razzie che è il Neoliberismo, ma che, in aggiunta, si getta rapido a disputarsi le briciole che il vero Potere gli lancia?

Guardi, il mondo è tondo, gira, cambia. E a poco o niente può servirle questo catalogo di evidenze duali: sinistra e destra, reazionario e progressista, antico e moderno, e sinonimi e antonimi tanto di moda nella politica di sopra.

Guardi, il fatto è, semplicemente, che il suo pensiero è decrepito.

Ed ha cominciato a perdere nel momento stesso in cui ha deciso di abbracciare quello di sopra (usando il vecchio trucco – che ora le si ritorce contro – di destra-sinistra-progressista-reazionario, di inventarsi alibi e vestirli delle stesse parole che oggi la intrappolano), dimenticando che quelli di sopra non accettano abbracci, ma genuflessioni.

No, non è che lei non abbia idee e bandiere. È solo che sono a brandelli. Non importa di quanta modernità siano ammantate, né quante parole altisonanti si dicano attorno ad esse, né quanti twit le ripetano, né quanti “like” e commenti raccolgano.

Lei, che si aspettava un proclama, il sangue anonimo versato, bellicosi squilli di tromba, le otto colonne, le immagini col sangue offerto sull’altare della Patria, voi, e solo voi, dovrete redimervi.

/ No mio caro, se le dico che lo zapatismo non è più quello di prima, si ricorda come quasi 20 anni fa ci emozionavamo con le immagini dei morti anonimi che non avevano né volto né nomi, tanto lontani, tanto indigeni, tanto chiapanechi? / Certamente, Ocosingo è in Medio Oriente? / Ah, e le loro iniziative, così brillanti quando c’era un palco per noi. / D’altra parte, chi può prendere sul serio chi rifiuta di iscriversi alla mobilitazione o al movimento (attenzione: non è la stessa cosa, imparate a differenziare) di moda? O analizzarla, classificarla, giudicarla, archiviarla? / Di fatto, sono finiti, non invitano più nemmeno la stampa alle loro celebrazioni, che cosa possono celebrare che non sia la nostra assoluzione o condanna? / Ah, ma quello che non perdoneremo mai a questi zapatones, non è solo che non siano morti tutti – e con ciò ci avrebbero negato il diritto di amministrare le loro morti nel lungo labirinto dei mausolei, delle ballate, dei “non sei morto compagno, la tua morte sarà amministrata” -, ma che anche le loro morti li abbiano resi tanto… tanto… tanto ribelli /.

E niente, invece di questo… post scriptum!

So che non le importa, ma per le incappucciate e gli incappucciati di qua, la lotta che vale non è quella che si è vinto o perso. È quella che prosegue, e per essa si preparano i calendari e le geografie.

Non ci sono battaglie definitive, né per i vincitori né per i vinti. La lotta proseguirà, e chi ora si delizia nel trionfo vedrà il suo mondo crollare.

Per il resto, non si preoccupi. Lei non ha perso niente perché non ha affatto lottato realmente. La sola cosa che ha fatto è delegare ad un altro il conseguimento del monopolio di una vittoria che non arriverà.

Quello di sopra cadrà, senza dubbio. Ma il suo crollo non sarà il prodotto di una lotta monopolizzata, escludente e fanatica.

Se vuole, continui a tirare da sopra, festeggerà ogni piccolo movimento del monolite, ma la corda si spezzerà continuamente.

Le statue e gli autoritarismi si abbattono dal basso, in modo che non rimanga il basamento per un nuovo busto che sostituisca il precedente.

Nel frattempo, ed è la mia umile opinione, la sola cosa che vale la pena fare là in alto è quello che fanno gli uccelli: cagare.

Vale, di gelato di noce, anche se fa freddo.

Il Sup che si prepara per…

 
REWIND 3
Che spiega il perché di questo strano titolo e di quelli che seguiranno, che narra dello straordinario incontro tra uno scarabeo ed uno sconcertante essere (voglio dire, più sconcertante dello scarabeo), e delle riflessioni non congiunturali e senza importanza che scaturirono; così come del modo in cui, approfittando di un anniversario, il Sup cerca di spiegare, senza riuscirci, come l@s zapatistas vedono la propria storia.
Novembre 2013
A chi di interesse:
AVVERTENZA.- Come segnalato nel testo autotitolato “Cattive notizie, ma anche no”, non sono stati pubblicati i testi che precedevano il suddetto. Ergo, quello che faremo sarà “riavvolgere” il nastro (o, come si dice, “rewind”) per arrivare a quello che si supponeva sarebbe apparso il giorno dei morti. Dopo di che, potete procedere alla lettura in ordine inverso all’ordine inverso nel quale appariranno e allora dovrete… mmm… lasciate perdere, perfino io mi sono rimbambito. La cosa importante è che si capisca lo spirito, come dire, “la retrospettiva”, cioè che uno va avanti ma poi torna indietro per vedere com’è che qualcuno ha fatto per arrivare là. Chiaro? No?
AVVERTENZA DELL’AVVERTENZA.- I testi che seguono non contengono nessun riferimento alle situazioni attuali, congiunturali, trascendenti, importanti, ecc., né hanno implicazioni o riferimenti politici, niente di tutto questo. Sono testi “innocenti”, come “innocenti” sono tutti gli scritti di chi si autonomina “il supcomandante di acciaio inossidabile” (cioè, io tapino). Ogni riferimento o somiglianza a fatti o persone della vita reale è pura schizofrenia… sì, come alla situazione internazionale e nazionale dove si può vedere che… ok, ok, ok, niente politica.
AVVERTENZA AL CUBO.- Nel caso molto improbabile che vi sentiate coinvolti da ciò che si dice di seguito, vi sbagliate… o siete un vergognoso fan della teoria della cospirazione ad hoc (che si può tradurre in “per ogni errore, esiste una teoria della cospirazione per spiegare tutto e ripetere gli errori”.
Procediamo:
-*-
P.S. Il primo incontro di Durito con il Gatto-Cane.-
Durito era serio. Ma non con il falso atteggiamento di un qualsiasi funzionario di un qualsiasi governo. Era serio come quando una grande pena ci affligge e non ci si può far niente, se non maledire… o raccontare una storia.
Don Durito de La Lacandona accende la pipa, cavaliere errante o errato, consolazione degli afflitti, gioia dei bambini, impossibile desiderio di donne ed altr@, irraggiungibile specchio per gli uomini, insonnie di tiranni e tirannuncoli, scomoda tesi per ignoranti pedanti.
Guardando rapito la luce delle nostre insonnie, quasi in un sussurro narra, affinché io la trascriva:
LA STORIA DEL GATTO-CANE
(Come Durito conobbe il Gatto-Cane e cosa dissero in quell’alba sui fanatismi).

Ad una prima occhiata il gatto-cane sembra un cane… ma anche un gatto… o cane…fino a che non miagola… o gatto… fino a che non abbaia.
Il gatto-cane è un’incognita per biologi terrestri e marini (in che tabella di classificazione degli esseri viventi sistemiamo questo caso?), caso irrisolvibile per la psicologia (la chirurgia neuronale non scopre il centro cerebrale che definisce la caninità o la gatttinità), mistero per l’antropologia (usi e costumi contemporaneamente simili ed antitetici?), disperazione per la giurisprudenza (che diritti e doveri derivano dall’essere e non essere?), il sacro graal dell’ingegneria genetica (impossibile privatizzare quello sfuggente DNA). Insomma: l’anello mancante che farebbe crollare tutto il darwinismo da laboratorio, cattedra, simposio, moda scientifica del momento.
Ma, permettetemi di raccontarvi quello che accadde:
Come naturale, era l’alba. Una flebile luce definiva le ombre. Tranquillo, camminavo solo con i passi della memoria. Allora sentii chiaramente che qualcuno diceva:
“Un fanatico è qualcuno che, per vergogna, nasconde un dubbio”.
Dandogli ragione tra me e me, mi avvicinai e lo incontrai. Senza fare le presentazioni, gli domandai:
− Ah, così lei è… un cane.
− Miao − mi rispose.
−… O piuttosto un gatto – dissi incerto.
− Bau − replicò.
− Va bene, un gatto-cane – dissi e mi dissi.
− Proprio questo – disse… o credetti di sentire.
− Come va la vita? − domandai (ed io trascrissi senza dubitare, pronto a non farmi sorprendere da niente, visto che era uno scarabeo che mi stava dettando questa singolare storia).
− A volte bene – rispose con una specie di ronron −. A volte da cani e gatti − grugnì.
− È un problema di identità? – dissi accendendo la pipa e tirando fuori il mio smartphone-tablet multitouch per scrivere (in realtà si tratta di un quaderno a spirale, ma Durito vuole passare per molto moderno – nota dello scrivano -).
− Nah, uno non sceglie chi è ma chi può essere – abbaiò risentito il gatto-cane −. E la vita non è altro che questo complicato passaggio, riuscito o interrotto, da una cosa verso l’altra − aggiunse con un miagolio.
− Dunque, gatto o cane? – domandai.
− Gatto-cane – disse come indicando l’ovvio.
− E cosa la porta da queste parti?
− Una di queste, che poi sarà.
− Ah.
− Canterò, affinché alcuni gatti sappiano.
− Emm… prima della sua serenata, che non dubito sarà un canto eccelso alla femmina che la turba, mi potrebbe spiegare quello che ha detto all’inizio della sua partecipazione in questo racconto?
− La cosa del fanatismo?
− Sì, era qualcosa come di qualcuno che nasconde i suoi dubbi di fede dietro il culto irrazionale.
− Proprio così.
− Ma, come evitare di entrare in una delle tenebrose stanze di quella torva casa di specchi che è il fanatismo? Come resistere ai richiami ed ai ricatti per militare nel fanatismo religioso o laico, il più antico, ma non l’unico attualmente?
− Semplice − dice laconico il gatto-cane−, non entrando.
Costruire molte case, ognuno la sua. Abbandonare la paura dell’indifferenza.
Perché c’è qualcosa di uguale o peggiore di un fanatico religioso, un fanatico anti religioso, il fanatismo laico. E dico che può essere peggiore perché quest’ultimo ricorre alla ragione come alibi.
E, chiaramente, i suoi equivalenti: il fanatismo omofobico e maschilista, la fobia per l’eterosessualità ed il femminismo. E ci aggiunga il lungo elenco nella storia dell’umanità.
I fanatici della razza, del colore, del credo, del genere, della politica, dello sport, eccetera, alla fine dei conti sono fanatici di se stessi. E tutti condividono la stessa paura del diverso. E incasellano il mondo intero nella scatola chiusa delle opzioni escludenti: “se non sei tale, allora sei il contrario”.
− Vuole dire, mio caro, che quelli che criticano i fanatici sportivi sono uguali? – interruppe Durito.
− È lo stesso. Per esempio, la politica e lo sport, entrambi legati ai soldi: in entrambi i fanatici pensano che quello che conta è la professionalità; in ambedue i casi sono meri spettatori che applaudono o fischiando i concorrenti, festeggiano vittorie che non sono loro e si dispiacciono per sconfitte che non appartengono loro; in tutti e due i casi incolpano i giocatori, l’arbitro, il campo, l’opposto; in entrambi i casi sperano “nella prossima volta”; pensano che se cambiano il tecnico, la strategia o la tattica, si risolverà tutto; in ambedue i casi perseguono i fanatici opposti; in entrambi si ignora che il problema è nel sistema.
− Sta parlando di calcio? − domanda Durito mentre tira fuori un pallone autografato da se stesso.
− Non solo di calcio. In tutto, il problema è chi comanda, il padrone, chi detta le regole.
Nei due ambiti si disprezza quello che non fa fare soldi: il calcio dilettante o di strada, la politica che non confluisca in congiunture elettorali. “Se non si guadagna denaro, allora per quale ragione farlo?”, si chiedono.
− Ah, sta parlando di politica?
− Neanche per sogno. Sebbene, per esempio, ogni giorno che passa è sempre più evidente che quello che chiamano “lo Stato Nazionale Moderno” è solo un cumulo di macerie in svendita, e che le rispettive classi politiche continuano a rimontare il castello di carte crollato, senza accorgersi che le carte della base sono completamente rotte e rovinate, incapaci di mantenersi dritte, non diciamo poi di sostenere qualcosa.
− Mmm… sarà difficile mettere tutto questo in un twit − dice Durito mentre conta per vedere se ci sta in 140 caratteri.
− La classe politica moderna si contende chi sarà il pilota di un aereo che da tempo si è schiantato nella realtà neoliberale − sentenzia il gatto-cane e Durito approva con un cenno di assenso.
− Dunque, che fare? − chiede Durito mentre ripone con cura il suo gagliardetto dei Los Jaguares de Chiapas.
− Eludere la trappola che sostiene che la libertà è poter scegliere tra due opzioni imposte.
Tutte le opzioni definitive sono una trappola. Non ci sono solo due strade, così come non ci sono due colori, due sessi, due credo. Cosicché né lì, né là. Meglio percorrere una nuova strada che vada dove uno vuole andare.
− Conclusione? − domanda Durito.
− Né cane, né gatto. Gatto-cane, per non servirla.
E che nessuno giudichi né condanni quello che non comprende, perché ciò che è diverso è la dimostrazione che non tutto è perduto, che c’è ancora molto da vedere e sentire, che ci sono ancora altri mondi da scoprire…
Il gatto-cane se ne andò, che, come indica il suo nome, ha gli svantaggi del cane e quelli del gatto… e nessuno dei loro vantaggi, se mai ce ne fossero.
Già albeggiava quando sentii un misto sublime di miagolii e latrati. Era il gatto-cane che cantava, stonato, alla luce dei nostri sogni più belli.
Ed in qualche alba, forse ancora lontana nel calendario ed in incerta geografia, lei, la luce che mi svela e rivela, capirà che ci furono tratti nascosti e fatti per lei, che forse solo allora le saranno rivelati o li riconoscerà adesso in queste lettere, ed in quel momento saprà che non importava che strade avessero percorso i miei passi: perché lei fu, è e sarà sempre, l’unico destino per cui vale la pena.
Tan-tan.
P.S.- Nel quale il Sup tenta di spiegare, in modo multimediale post moderno, come l@s zapatistas vedono e si vedono nella propria storia.
Bene, per prima cosa bisogna chiarire che per noi tutt@, la nostra storia non è solo quello che siamo stati, quello che ci è successo, quello che abbiamo fatto. È anche, e soprattutto, quello che vogliamo essere e fare.
Orbene, in questa valanga di mezzi audiovisivi che vanno dal cinema 4D e le televisioni LED 4K, fino agli schermi policromi e multitouch dei cellulari (che mostrano la realtà a colori che, permettetemi la digressione, non ha niente a che vedere con la realtà), possiamo collocare, in un’improbabile “linea del tempo”, il nostro modo di vedere la nostra storia con… il kinetoscopio.
Sì, lo so, sono partito da lontano, alle origini del cinema, ma con internet ed i vari wikis che abbondano e ridondano, non avrete certo problemi a sapere a che cosa mi riferisco.
A volte, può sembrare che siamo nei dintorni dei formati 8 e super 8, ed anche così il 16 millimetri è ancora lontano.
Voglio dire, il nostro modo di spiegare la nostra storia sembra un’immagine in movimento continuo e ripetitivo, con qualche variazione che dà quella sensazione di mobile immobilità. Sempre attaccati e perseguiti, sempre a resistere; sempre annichiliti, sempre a ricomparire. Forse per questo le denunce delle basi di appoggio zapatiste, diffuse attraverso le loro Giunte di Buon Governo, hanno così poche letture.
È come se si fossero già lette molto prima e cambiassero solo i nomi e le geografie.
Ma anche qui ci mostriamo. Per esempio, in:
http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2013/11/13/la-jbg-corazon-del-arco-iris-de-la-esperanza-caracol-iv-torbellino-de-nuestras-palabras-denuncia-hostigamiento-y-agresiones/
Sì, è un po’ come se in quelle immagini in movimento di Edison, del 1894, nel suo kinetoscopio (“Annie Oackley”), noi fossimo la moneta lanciata in aria, mentre la signorina civiltà ci spara ripetutamente (sì, il governo sarebbe l’impiegato servile che lancia la moneta). O come se in “L’arrivo del treno” dei Fratelli Lumière, del 1895, noi fossimo quelli che restano sul marciapiede mentre il treno del progresso va e viene.
Alla fine di questo testo troverete alcuni video che vi aiuteranno a capire.

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