Passato imperfetto, c’ha da diventare remoto


"Passato imperfetto, c’ha da diventare remoto"
di Yabasta, studente di 16 anni al liceo di Bellinzona con orientamento classico. Mi definiscono ciapato del computer e su questa macchina smanetto svariate ore al giorno; amo chi vive ancora lo sport fuori dalle logiche del mercato che lo stanno distruggendo e chi lotta per i propri colori e ideali. – http://yabasta.noblogs.org

Mi fa arrabbiare: ci sono tantissime cose che mi fanno arrabbiare, ma più di tutte può l’indifferenza delle persone davanti a tutte queste “tantissime cose”.

R-esisto andando avanti a testa alta, con l’amicizia di tutt* i/le compagn*, lottando.

 

A chi (r)esiste, ieri oggi domani.

Sento il bisogno di scrivere. Salendo per la ripida collina che porta al complesso di morte i pensieri turbinano per la mente, ma assai più pesanti si fanno quando si intravvedono i camini dei forni crematorti stagliarsi verso l’azzurro cielo. Varcando le spesse mura del campo di concentramento di Mauthausen-Gusen si prova una strana senzazione: "Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’ ", le viscere somigliano un toboga. La vista prosegue sotto il sole cocente tra filo spinato arrugginito, lapidi di commemorazione di ogni lingua o cultura e baracche di legno intaccate dal tempo. Ma il momento più delicato e ricco di emozioni è arrivato: le piastrelle bianche mi circondano gelide e il cartello Gaskammer mi penetra come un piccone nei neuroni. In questo luogo furono uccise migliaia di persone. Questa consapevolezza mi fa tremare le gambe. Pian piano, intontito, proseguo il mio vagare tra questi muri che trasudano morte e sofferenza; le micidiali testimonianze non si fermano: Sezierraum, Leichen-Raum e le foto di migliaia di vittime sono solo alcuni dei segni tangibili dell’orrore che era. Provo rabbia nel vedere le persone che camminando tra queste mura non percepiscono nessun’ sentimento e con il loro comportamento usurpano la memoria di un luogo dove appena cinquant’anni prima un essere umano venne ucciso per la bandiera raffigurata sul suo passaporto. Non ho ancora visto tutto, mi dice la guida che ho acquistato all’entrata: La scala della morte era un altro dei vili metodi che i nazisti usavano per eliminare i diversi. Centoottanasei gradini alti ed irregolari che i prigionieri percorrevano innumerevoli volte al giorno oberati da blocchi di pietra, pesanti fino a 50 chili e prelevati dalle cave di pietra sottostanti, gli augzzini poi facevano la loro parte per spezzare il numero più elevato possibile di vite. La giornata è finita, ma non sono più lo stesso. La sera, nel letto angusto del camper, il sonno stenta a prendere il sopravvento e le sinapsi sono in fermento. Dopo questa giornata ricca di significato sono ancora più convinto e sicuro. Più convinto e sicuro che la lotta perché quello che era diventi per sempre quello che fu sia necessaria, ora e sempre. Ma la rabbia ha un posto di rilievo nello spettro dei miei sentimenti: la rabbia contro chi pensa che tutto sia finito, che tutto sia perfetto in questo mondo. Provo odio verso le persone che chiudono gli occhi davanti al razzismo in cui ogni giorno viviamo, davanti a queste testimonianze del passato, davanti all’omofobia; davanti alla paura del diverso, oggi come ieri.

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