"L’infernale paradiso"
di Maurizio Cerri
L’infernale paradiso Maurizio Cerri, Sonvico – CH, dicembre 2008
Rientro da una passeggiata con mia moglie. Costeggiamo il parco della villa Thyssen a Lugano: cancelli, muraglioni, fitte siepi, spuntoni di ferro. Malgrado le leggi cantonali prevedano il libero accesso alle rive del lago, dobbiamo percorrere il tratto superiore lungo la strada trafficata, abbandonando la riva soleggiata e le acque luccicanti che riflettono il sole invernale.
Tento di raccontare la testimonianza della sorella di Giuseppe Demasi, uno degli operai della Thyssen Krupp di Torino, morto dopo un mese di atroce agonia, bruciato con altri sei suoi compagni il 6 dicembre del 2007 nella fabbrica in cui lavorava. Riesco a dire solo poche frasi, l’emozione è troppo forte, il groppo alla gola si fa subito sentire e non riesco a trattenere le lacrime. Smetto, non voglio farmi vedere piangere. La sorella di Giuseppe vive una rabbia indicibile, ingovernabile, opprimente, totalizzante, un dolore che l’ha catturata e di cui difficilmente riuscirà a liberarsi. Lo stupendo parco sottostante si mostra solo con le cime dei cipressi e solo nella prima parte lascia intravedere qualcosa di sé. Per gestirlo una squadra di giardinieri vi lavora a tempo pieno. Ogni anno i baroni Thyssen spendono mezzo milione di franchi per mantenere il giardino ormai da loro non più frequentato e interdetto agli occhi del pubblico. Per il “miglioramento degli impianti fissi antincendio” si prevedeva un investimento di 500’000 euro: lo si legge sugli appunti presi dall’operaio Antonio Boccuzzi in occasione di un incontro con la direzione dell’impresa nell’aprile del 2007. Soldi mai spesi. Intanto Antonio porta sul viso i segni delle ustioni di quel giorno maledetto. Due anni fa la compagnia di assicurazione della Thyssen Krupp aveva aumentato la franchigia perché la fabbrica di Torino non era più sicura. Un anno dopo, dalla linea 5, una lingua di fuoco di olio bollente ha carbonizzato sette lavoratori. Un cipresso è un po’ sofferente, leggermente piegato, mostra nella parte centrale numerosi rami secchi. Entro la primavera verrà sicuramente sostituito con un esemplare adulto: non bisogna rovinare l’armonioso filare di cipressi che conduce alla prima sobria villa utilizzata a suo tempo dalla servitù e che prosegue poi per quasi un chilometro. Che incanto, che delicatezza!Io non so cosa voglia dire la rabbia, non ne ho la minima idea. “Voglio che i responsabili di quanto è avvenuto soffrano come ha sofferto mio fratello … che restino in galera per tutta la vita”.
Più volte ho avuto la possibilità di visitare il parco della villa e la pinacoteca, prestigiosa collezione privata ora finita nelle adiacenze del museo del Prado a Madrid. Sapevo benissimo dov’ero e cosa costava tutto ciò. Non i costi di acquisto e di gestione, ma i costi in dolore e in vite umane di chi aveva materialmente creato quella ricchezza e di chi aveva dovuto soccombere agli effetti devastanti di quanto la nobile famiglia ha messo in commercio. La dinastia dei Thyssen aveva accresciuto la propria ricchezza producendo armi durante la prima guerra mondiale, ma in seguito anche per le armate hitleriane. Recentemente si è saputo che la contessina Margit Thyssen-Bornemsiza nel marzo del 1945 in occasione di una festa da lei organizzata si era divertita con i suoi ospiti a massacrare a colpi di pistola e bastone 200 ebrei che teneva rinchiusi nelle stalle del castello di Rechnitz in Austria. Dopo si rifugiò a Lugano. Visse onorata e indisturbata fino alla morte nel 1989. La villa e il parco fanno pensare al paradiso, in primavera il profumo e i colori delle diverse varietà di glicine sono inebrianti. Anche i bombi impazziscono dalla gioia. Dal paradiso all’inferno. Dopo che la fiammata aveva bruciato gli occhi, le orecchie, la pelle di Giuseppe Demasi questi chiedeva ad uno dei suoi compagni accorsi per aiutarlo: “Giovanni, sei qui vicino? Guardami, guardami la faccia: com’è? Cosa ci siamo fatti, Giovanni?”
No, non so cosa sia la rabbia. Ho avuto la grande fortuna di poter gestire le mie rabbie in piena libertà e leggerezza. Nei tentativi di contrastare questo mondo schifoso mi sono potuto permettere di trovare la mia autonomia dall’inquinante carburante delle compagnie petrolifere riscoprendo la ranza (la falce fienaia) patrimonio di una tradizione lavorativa che va scomparendo; come contributo a salvaguardare la biodiversità ho riscoperto e impiantato antiche varietà di alberi da frutto; piccoli passi verso la decrescita li ho percorsi con le autoproduzioni, marmellate in particolare. La mia è una rabbia declinata nella gioia. Capisco che quella della sorella di Giuseppe non potrà mai più essere vissuta con dolcezza. Non la posso aiutare, anche questo mi riempie di rabbia, ma mi auguro che la rabbia gioiosa di tutti i privilegiati come lo sono io, possa congiungersi con le insopportabili rabbie di tutti gli oppressi della terra per costruire un mondo migliore, per r-esistere.