La loro aula è la mia trincea


"La loro aula è la mia trincea"

di Olli

Renaud, storico rocker francese, cantava: “Ci sono più fascisti nel tuo corso di giurisprudenza che in un reggimento di Parà.” Difficile dargli torto, cosi come è difficile resistere quando ogni mattina sei catapultato dal tepore del tuo spazio vitale a un aula insipida e grigia dove a spiccare sono il viola delle gonnelline ultimo grido e i cadaveri di conigli che ornano colletti e maniche dei giubbotti di marca. Difficile resistere agli sguardi che ti scrutano nel vestito per vedere dov’è stato prodotto (“in Thailandia? Che schifo.. pensavo fosse francese!”). Difficile persino intravedere il professore che parla di diritti fondamentali in una giungla di computer mentre Facebook ci vomita addosso l’insignificante intimità del nostro compagno di banco. Difficile resistere tra gli studenti di oggi, tra i potenti di domani.

Eppure resistere si può, resistere si deve.
Si può farlo dovunque, persino in una facoltà di diritto, se il caso e la tua storia personale ti ci fanno trovare. Si tratta però di una resistenza strisciante e sottile. Diversa da quella dei grandi manifesti, degli scontri di piazza, degli orecchini in faccia, dei capelli fluo e delle magliette esaltanti una lotta armata che forse converrebbe tenere celata nei muri e nelle cantine, in attesa di momenti e sensibilità più propizie. È una resistenza costretta nei libri e nelle biblioteche, nei giornali, nei discorsi, da dove trasmettere e contagiare con argomentazioni che vanno oltre slogan il cui abuso ne ha usurato il senso, rendendoli ostici anche agli uditi meno restii. È una resistenza che sostiene dei diritti, delle necessità sociali, passando dall’astratta codificazione alla concreta applicazione. Si può resistere anche attraverso la legge, e non solo difendersi e barricarsi, ma anche camminare, avanzare, progredire e costruire.

Si può farlo perché a Amsterdam le case sfitte da più di un anno possono essere occupate, e ciò è in strada, ma è anche nelle leggi. Si può farlo perché forse un domani potremmo fumarci un canna sulla panchina del parco Ciani, e ciò anche perché sarà nella nostra Costituzione. Si può farlo perché sul piano di Magadino ci sono i pomodori, e non il cemento, perché sul ceneri non ci sarà uno stand di tiro e perché nelle aule di scuola elementare non ci sono i crocifissi. E questo perché lo abbiamo voluto noi. Le nostre schede nell’urna e la democrazia nella Costituzione hanno allontanato il cemento dal fondovalle come il tribunale federale ha allontanato il simbolo di Cristo dai bambini di Cadro.
Resistere non è solo una possibilità, ma anche un dovere: Bisogna essere partigiani, non indifferenti. Senza dimenticare anche altre parole di Gramsci, non meno vere, e cioè che a sbattere la testa contro il muro è la testa a rompersi, non il muro. Bisogna agire nel modo più utile e concreto possibile, perché i bei discorsi non garantiscono diritti, i codici lo fanno, almeno sulla carta.
Si deve resistere anche perché la strada è infinita e l’obiettivo è l’orizzonte. Perché Marco, Joana, Peña e molti altri cercano il cielo e trovano un muro di cemento. Perché c’è chi non ha casa, non ha cibo, non ha vita. Si deve resistere perché in galera ci stanno i poveri, mentre spesso chi ha rubato i milioni se li sta bevendo al bar. Si deve farlo anche perché “la legge è uguale per tutti”, ma noi siamo tutti diversi. Si deve resistere perché gli aerei militari non li vogliamo, perché le leggi razziste non le vogliamo, perché vogliamo il Molino per 10 anni e 10 anni ancora, e tutto questo, volenti o nolenti, in questa società passa anche dalle leggi, e queste leggi passano anche dalle aule delle università, proprio quelle piene di fascisti incravattati.


Quindi è questa la mia trincea, la mia selva, il mio covo. Non con passamontagna ma con codici e dottrina metto in atto la mia personale resistenza, sparando parole di fuoco contro liberticidi e le ingiustizie.

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